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Kara Swisher è la giornalista che da sempre racconta la Silicon Valley e l’industria tech americana. Kara Swisher ha scritto un libro che si intitola Burn Book, mantenuto così anche nella versione italiana (Apogeo, 222 pagine, 25 euro), anche se è stato cambiato il sottotitolo che nella versione originale è ‘A tech love story’, e nella versione italiana diventa ‘la Silicon Valley raccontata da chi la conosce come nessun altro’.
Swisher è tagliente, pungente, empatica, approfondisce, descrive si confronta, guarda oltre le superfici, ha attraversato le vicende della tech industry dagli albori di internet fino a quelli della intelligenza artificiale, ha scritto per testate prestigiose come il Washington Post e il Wall Street Journal, ha fatto la imprenditrice fondando All Things Digital e Code, piattaforme di informazione e divulgazione giornalistica dedicate appunto al mondo dell’industria tech. Soprattutto ha conosciuto tutti, ma proprio tutti i protagonisti della storia della Silicon Valley, ne ha approfondito la relazione, ne ha guardato nell’animo accontentandosi mai delle dichiarazioni di facciata.
Il libro di Swisher non è un libro sulla tecnologia, è un libro sull’umanità che ha fatto della tecnologia la sua missione, è un libro sulle persone e la prima delle persone che l’autrice racconta è se stessa e lo fa non per una spinta narcisistica ma perché è consapevole che solo condividendo con il lettore la sua storia personale è possibile anche trasmettere la sua, altrettanto personale, esperienza dell’incontro con i tanti personaggi di cui narra nel libro.
Ci sono i grandi imprenditori: Jeff Bezos, Steve Jobs, Bill Gates, Mark Zuckerberg fino a Reid Hoffman, Jerry Yang, Sergey Brin, Larry Page, Sam Altman e tantissimi altri come quelli di Uber, Zappos, Instagram, i grandi manager Sheryl Sandberg, Satya Nadella, Sundar Pichai, Tim Cook, i venture capital Marc Andreessen, Peter Thiel, il grande cattivone che per Swisher è Elon Musk il quale negli anni si è trasformato nella peggiore versione di se stesso, e poi quelli buoni, quelli bravi a partire da Dave Goldberg, marito di Sandberg morto improvvisamente, e poi anche persone del mondo dello spettacolo come George Lucas o Bob Iger, della politica, del giornalismo.
Il racconto fluisce seguendo sia una logica cronologica riservando qualche curiosità e fatto magari meno noto tra quelli che hanno costellato l’evolversi dell’epopea della Silicon Valley, sia un un impianto derivato dalle varie sensibilità umane che l’autrice ha incontrato nel suo percorso. Swisher mai si trincera dietro a cose dette a metà, mai si rifiuta di fare i nomi, va dritta al punto è impermeabile all’eventuale ira dei tech-potenti che leggeranno il suo racconto, mostra il significato più profondo di approccio giornalistico, dice le cose come stanno, come lei le vede, ne argomenta ragionamenti e motivazioni, parla del bene e del male, non si ferma a giudizi parziali, inventa persino una metrica che chiama ‘rapporto coglione-produttività’ per dare ancora maggior corpo al suo pensiero. Esce dalla trappola dell’illusione che gli imprenditori tech fanno le cose per migliorare il mondo ribadendo di tanto in tanto che è il denaro alla fine di tutto il vero motore della faccenda, racconta come il sentimento più diffuso tra l’elite tech sia quello del vittimismo, insieme a insicurezza e solitudine, e come, non di rado, l’aderenza al potere politico abbia contribuito a tenere l’industria tech americana quasi immune da azioni contenitive da parte dei governi USA, cosa che, per esempio, l’Europa non ha fatto perchè più attenta alla tutela dei consumatori e dei cittadini.
Il libro è un viaggio che intriga sia chi è curioso di conoscere meglio come l’industria tech è arrivata fino a qui , sia conoscere i retroscena e l’umanità delle persone che l’industria tech l’hanno costruita e, a volte anche danneggiata, togliendo dal campo visioni mitologiche o idealizzate ma andando a scoprire i gangli di un settore che, come tutte le cose umane, non è solo oro e luccichio.
Il libro è anche una piccola lezione di giornalismo, Swisher si confessa, dice come ha resistito alle tentazioni di offerte ultra milionarie pur di mantenere la sua indipendenza, racconta come ha sempre avuto un approccio analitico, investigativo, operativo, confessa quali sono state le sue fonti nei casi di scoop più eclatanti che hanno costellato la sua storia professionale, e come, a volte, ha fatto scelte coraggiose pur di non creare una relazione ambigua tra la sua professione e la sua vita personale. Di come sono molte di più di quelle che poi pubblica le informazioni che un bravo giornalista raccoglie e di come tali informazioni vanno pubblicate solo se hanno rilevanza nel contesto della storia che si desidera raccontare e non se hanno invece poca o nessuna rilevanza ma potrebbero rivelarsi dannose per qualcuno. Soprattutto è illuminante l’esperienza dell’autrice nel sapere trovare l’equilibrio tra l’indipendenza giornalistica e il desiderio di creare una sua propria impresa editoriale coniando la figura che definisce come ‘reportimprenditrice’.
Oggi Swisher vive a Washington DC con la moglie e i quattro figli, è sempre convinta che la tecnologia sia una buona cosa ma è anche paladina della necessità di renderla più compatibile con il mondo, che debba essere maggiormente regolata togliendo per esempio alle big tech il potere di disporre in ogni modo possibile di quello che definisce il database delle intenzioni umane, ovvero le informazioni e le azioni di ognuno di noi, e questa è una cosa che la rende profondamente critica nei confronti delle istituzioni politiche statunitensi. Continua a guardare con la stessa intuizione che all’inizio dell’era internet le fece scrivere che tutto sarebbe stato digitalizzato, il continuo svilupparsi delle tecnologie a partire dalle possibili evoluzioni dell’intelligenza artificiale.
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